Focus ON

Le competenze per competere

Imparare, disimparare, re-imparare. Combinando le discipline. L’ingegnere del futuro deve fare come Fosbury: pensare quello che nessuno ha pensato

di FABIO DE MARTINO | Chief Innovation Officer PINI Group

Per parlare di innovazione nel mondo ACE (Architecture Engineering Construction) occorre partire da un concetto basilare, che non ha nulla a che fare con la tecnica, ma che risulta fondamentale per le aziende di oggi, che vorranno essere anche le aziende di domani: l’importanza delle risorse umane e il ruolo strategico che le aziende stesse possono assolvere occupandosi di formazione, upskilling e reskilling.

Entriamo nel vivo del tema con due aforismi. Il primo, attribuito al filoso statunitense Eric Hoffer, è il seguente: “Gli analfabeti del XXI Secolo non saranno coloro che non sapranno leggere o scrivere, ma coloro i quali non sapranno imparare, disimparare e imparare di nuovo”. È più che mai evidente, nel nostro tempo, l’importanza di continuare ad apprendere, facendo proprio il concetto socratico del “so di non sapere” che dovrebbe spingere a migliorare ognuno di noi.

Il secondo aforisma riguarda l’essenza stessa del concetto di innovazione. Spesso, guardando soprattutto al mondo tech e prendendo come esempio la Silicon Valley quale Eldorado del cambiamento, pensiamo che l’innovazione debba essere, per forza di cose, disruptive

Ma l’innovazione non è solo IPhone, Netflix o l’avvento della fotografia digitale; spesso si tratta di piccoli cambiamenti incrementali in grado di generare un impatto. Come sostiene Albert Szent-Györgyi: “Innovazione è vedere quello che tutti hanno visto e pensare quello che nessuno ha pensato”.

PINI Group, azienda di cui faccio parte, è attiva da oltre 70 anni nella progettazione, direzione lavori e consulenza nell’ambito del costruito. Un’azienda che i fondatori hanno sempre definito “una scuola di ingegneria”, nella quale i giovani ingegneri neolaureati trovano spazio per “apprendere il mestiere” dagli ingegneri senior che la popolano. 

Oggi decliniamo il concetto di “scuola d’ingegneria” non solo a questo ambito. Adottiamo pratiche di reverse mentoring dando la possibilità ai nativi digitali di portare il loro sapere direttamente in ufficio. Cerchiamo di lavorare affinché si instauri una sana cultura della “contaminazione”. Ogni collega, dipartimento, settore o mercato ha, infatti, qualcosa da insegnare all’altro. Ma bisogna, prima di tutto, saper ascoltare. 

PINI Group, azienda di ingegneria civile specializzata nella progettazione e direzione lavori di tunnel, ha aperto un dipartimento dedicato all’innovazione, che ho l’onore e l’onere di gestire. 

Un’azienda che ha creato un fondo, “Pini4Innovation” di Corporate Venture Capital e di sostegno a progetti di innovazione. Un’azienda che sta aprendo i propri confini a università, centri di ricerca e competitor (in un’ottica di “coopetizione” piuttosto che di mera competizione). Tutto questo si può e si deve fare quale risposta al bisogno di innovare.

 

Fosbury tra sport e ingegneria

Ma allora, che cosa vuol dire fare innovazione? Per rispondere a questa domanda mi piace raccontare una storia. Una storia di sport, ma anche di ingegneria, quella di Dick FosburyCampione olimpico a città del Messico nel 1968, Dick è colui il quale ha rivoluzionato lo sport del salto in alto, portandolo a essere lo sport che tutti conosciamo oggi. 

Combinando il salto ventrale con la tecnica a forbice, e introducendo la rincorsa curva, Dick ha intuito che poteva saltare più in alto di tutti coniando un nuovo stile di salto, mai utilizzato prima di allora. Per superare i suoi limiti Dick ha “visto quello che tutti vedevano ma ha pensato, e osato, ciò che nessuno aveva ancora pensato”.

Ma la storia di Dick lascia quattro grandi lezioni. La prima è che non esiste innovazione senza conoscenza, studio e preparazione. Da studente di ingegneria Dick ha capito i benefici della rincorsa curva e ha studiato a tavolino il punto di stacco ottimale per saltare più in alto degli altri, non lasciando nulla al caso. La seconda lezione è che l’innovazione non dev’essere sempre disruptive: Dick ha introdotto piccoli cambiamenti, partendo dalle tecniche di salto esistenti, che hanno generato un risultato grandioso. 

La terza lezione è che innovare ci metterà sempre di fronte a qualcuno che penserà che stiamo sbagliando. La vittoria di Dick Fosbury arriva dopo anni di sacrifici, dopo molti allenatori che lo hanno abbandonato, dopo che il pubblico a Città del Messico lo ha deriso fino a qualche istante prima del suo oro olimpico. La quarta lezione è che l’errore è parte dell’apprendimento, parte del gioco dell’innovazione. Nessuna retorica da quattro soldi in merito, sbagliare è doloroso. Ma quello che non bisogna fare è pensare all’errore come a un fallimento, come a qualcosa di fatale e incorreggibile.

Progresso esponenziale

Quando si parla di innovazione la prima domanda da porsi, a mio parere, è: “È proprio  indispensabile innovare? Abbiamo un’altra scelta?” Per rispondere a queste domande utilizzerei, in prima battuta, due grafici. Il primo mostra il carattere esponenziale del progresso. Contro quello che si può immaginare, il progresso non è schematizzabile con una linea retta. Per rappresentarlo dobbiamo utilizzare una curva. Per capire l’impatto che questo può avere, vorrei citare un futurologo e saggista statunitense: “Nel XXI Secolo assisteremo a 20.000 anni di progresso piuttosto che a 100 anni di progresso”. Queste parole di Ray Kurzweil ben sottolineano il concetto di esponenzialità e accelerazione che caratterizzano intrinsecamente il concetto di progresso.

Un processo evoluzionistico, e sia la biologia sia la tecnologia sono processi evoluzionistici, nel tempo accelera”. Per quale motivo? “Perché funzionano per interazione, ovvero creano una funzionalità e poi usano quella funzione per fare il passo successivo. Non ripartono mai da zero”. Cosa vuol dire questo? Che tutto cambia con una velocità che non possiamo, oggi, nemmeno immaginare.

 Un altro grafico interessante è rappresentato dalla curva di adozione tecnologica. È molto interessante vedere come le nuove tecnologie trovino un’adozione sempre più veloce da parte della popolazione, della massa. Non parlo di quella fascia di popolazione che potremmo definire “innovatori”, ma della gran parte della popolazione. Per adottare una tecnologia come il telefono il campione di popolazione preso a riferimento ha impiegato oltre mezzo secolo. Per il cellulare meno di un decennio. Non ci rendiamo nemmeno conto della velocità con la quale adotteremo tecnologie in futuro. Anni? Mesi? O magari giorni… 

Velocità e competenze

La velocità è semplicemente l’unica regola di questo gioco. Ma cosa comporta tutto questo? Alcuni aspetti che vale la pena sottolineare sono, a mio avviso, l’insorgenza di nuovi bisogni ed esigenze nella popolazione. L’ambiente fisico, sociale e psicologico in cui viviamo, caratterizzato dalla digitalizzazione e dalle nuove tecnologie, influisce sulla determinazione dei nostri bisogni. Viviamo l’era dei bisogni digitali e dei bisogni emozionali, che guidano la scelta d’acquisto dei consumatori, così come le scelte di vita in generale. Probabilmente tutti conosciamo la piramide dei bisogni di Maslow. Oggi questa caratterizzazione dei bisogni viene affiancata a un’altra piramide, quella di COSMA, che definisce i bisogni digitali che la tecnologia ha generato. 

La velocità del progresso e della tecnologia comporta inoltre un decadimento sempre più veloce delle competenze. Una laurea 40 anni fa aveva un significato, in termini di spendibilità, completamente diversa da una laurea di oggi. Un’ultima considerazione riguarda la riduzione del ciclo di vita di prodotti e servizi, nonché la sempre più elevata mortalità delle imprese. Cosa intendo? Vi sono aziende che fino a 10 anni fa non esistevano e oggi sono pioniere del mondo tech, con capitalizzazioni altissime e diffusione globale. Zoom è arrivata, in meno di 10 anni, a valere più di IBM. Aziende “leader di mercato” sono state spazzate via da start-up disegnate su un foglio di carta da qualche ragazzo in giro per il mondo.

Lato umano: un’arma in più

Se tutto questo non bastasse a dimostrare la necessità di innovare, possiamo scattare una fotografia del mondo oggi e di come vi siano questioni che impattano tutto il settore dell’architettura, dell’ingegneria e delle costruzioni. La questione climatica e ambientale, per esempio, oppure l’aumento demografico, i trend del settore automotive con le nuove forme di mobilità in generale, le nuove necessità legate al concetto di “abitare”, la scarsità di risorse a supporto del secondiario, la scarsità di risorse umane qualificate, eccetera.

L’innovazione può essere “portatrice sana” di soluzioni per risolvere, o almeno mitigare, molte di queste questioni aperte, migliorando le pratiche esistenti e portando, anche, nuove opportunità e modelli di business. Analizzando il rapporto “Digitalisation in the construction sector” (European Construction Sector Observatory), versione aprile 2021, possiamo notare come l’innovazione, nel mondo ACE, possa essere schematizzata in tre grandi “blocchi”: Data acquisition, Automating Processes e Digital Information and Analysis. All’interno di queste tre macro categorie troviamo concetti come Digital Twin, BIM, IoT, eccetera, applicativi, tecnologie e pratiche tra loro intimamente connesse.

Un sondaggio, in questo rapporto, mi ha particolarmente colpito. È stato chiesto a studi di ingegneria e architettura, ma anche a imprese di costruzione, quali fossero le vere sfide in termini di tecnologia e innovazione. Analizzando i risultati possiamo affermare che il 45% degli intervistati assume come sfida principale la “mancanza di consapevolezza e comprensione” delle nuove tecnologie e il 43% la “mancanza di competenze delle risorse umane”. Il quadro che si delinea è abbastanza chiaro: la sfida della digitalizzazione, dell’innovazione e del progresso si giocano sulle competenze e sulle risorse umane.

Ma allora possiamo demandare alle università e al solo mondo accademico questa sfida, che non si gioca sul piano tecnologico ma sul piano umano? In uno scenario come questo, la capacità di adattarsi e di ricombinare conoscenze e saperi costituirà il vero vantaggio competitivo, per le aziende, ma anche per i singoli professionisti. Insomma, il futuro dobbiamo avere la forza di plasmarlo, piuttosto che la passività di subirlo.

L’ingegnere 4.0

Upskilling, reskilling e formazione assumono quindi il ruolo di “piatto principale” e non più solo di contorno su una tavola il cui unico punto certo è il cambiamento. L’ingegnere 4.0 sarà colui che sarà in grado di porsi al centro di un contesto interdisciplinare, combinando hard skills a soft skills. Conoscenza delle tecnologie immersive, del concetto di IoT, della Blockchain saranno fondamentali tanto quanto la creatività, il pensiero laterale, la capacità di lavorare in team, la capacità di negoziare, eccetera. Tutto ciò difficilmente potrà essere assorbito in un contesto universitario. 

La Commissione Europea ha riconosciuto, già da tempo, l’importanza dell’apprendimento continuo e dello sviluppo di nuove competenze anche per il settore ACE, avviando diversi programmi di upskill e reskill che interessano tutta la filiera, come per esempio Construction Blueprint, European Pact for Skills, Build UP Skills Initiative. Questi temi devono assumere la centralità che merito all’interno delle aziende stesse e non solo nei contesti istituzionali. Il vero cambiamento deve partire dagli attori del settore.

Ma concretamente quali possono essere i pilastri, le best practice, per introdurre questi temi in azienda? Personalmente ho individuato quattro pilastri principali: in primis la necessità di avere una visione strategica la più ampia possibile e una coerenza tra le azioni messe in campo e la propria agenda digitale. In secondo luogo, la necessità di adottare un approccio olistico e multidisciplinare. In terza battuta la necessità di dare importanza al reverese mentoring e alla contaminazione all’interno dell’azienda. Ultimo, ma non ultimo, la necessità di accorciare i cicli decisionali rendendo le strutture snelle e agili, ovvero adattabili in funzione dei mutamenti esterni.

Per concludere vorrei prendere a prestito un altro aforisma attribuito a Eric Hoffer: “In un tempo di cambiamenti, chi impara eredita il futuro. Chi già conosce si trova ben equipaggiato per vivere in un mondo che non esiste più…”.

I temi esposti dall’autore in questo articolo sono stati presentati dal medesimo nella veste di relatore nel corso del Forum Ingegneria 4.0 organizzato lo scorso 20 maggio a H-Farm, Roncade, Treviso, da CSP Fea, che ringraziamo per la collaborazione. 

Leggi anche: “Lo spirito vitale dell’ingegneria 4.0”

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