Migliorare strutturalmente la sicurezza? Si può lavorando su una cultura ad hoc da “impastare” con ogni altra attività. Come ci spiega l’ingegner Mario Quintieri di Amplia (ASPI)
di FABRIZIO APOSTOLO
Nasciamo per operare e muoverci in sicurezza, ma siamo “cresciuti” spesso perdendo di vista questo grande obiettivo “di natura”, potremmo dire. Oggi più che mai, occorre rimettere la safety (in ogni sua declinazione) al centro della scena, in una visione a tutto campo che colleghi la fruizione dell’infrastruttura alla sua progettazione e realizzazione.
Nel settore, i luoghi più sensibili rispetto a questa materia sono i cantieri. Come quelli di Amplia Infrastructures, anima construction del gruppo Autostrada per l’Italia che da pochi mesi ha messo alla guida della funzione salute e sicurezza uno specialista come Mario Quintieri, ingegnere con all’attivo una serie di importanti traguardi raggiunti in un settore altrettanto delicato come quello dell’Oil&Gas. VISIONJ, che l’11 ottobre a Bologna coordinerà insieme al SITEB la conferenza “Asphaltica for Road Safety. Le tappe del viaggio della sicurezza”, ha incontrato il top manager di Amplia Infrastructures per raccogliere dalla sua voce una serie di preziose considerazioni su un tema connaturato alla nostra testata.
Ingegner Quintieri, può raccontarci il suo percorso professionale fino al recente approdo in Amplia Infrastructures?
Prima di arrivare in Amplia, pochi mesi fa, per 24 anni ho lavorato nell’Oil&Gas. Negli ultimi due anni – su un totale di 12 passati in Eni – ho ricoperto l’incarico di responsabile della funzione sicurezza e ambiente di Eni Rewind, il braccio ambientale del gruppo, un’eccellenza nel campo della bonifica dei siti industriali. In precedenza mi sono occupato prevalentemente di sicurezza dei lavori in appalto.
I principali obiettivi raggiunti?
In particolare, nell’ultimo decennio, posso dire di aver dato – insieme al mio team e a tutta l’azienda – un contributo rilevante all’obiettivo “zero infortuni” sul lavoro, facendo di Eni un modello. Lo dice un dato, su tutti: per quanto riguarda gli indici infortunistici, il settore delle costruzioni in Italia detiene una frequenza media pari a 15, il che significa 15 infortuni ogni milione di ore lavorate. Eni, dopo un intenso percorso di miglioramento, nel 2023 ha raggiunto quota 0,4.
A breve ci concentreremo sulle azioni che consentono di raggiungere questo genere di risultati. Per definire una corretta cornice in cui collocare il tema safety, e prendendo spunto dalla sua più recente esperienza, come legge la connessione tra sicurezza e ambiente?
Nella vita d’impresa e nei cantieri, sicurezza e ambiente sono due fattori che devono procedere di pari passo, in quanto coinvolgono gli stessi processi organizzativi e produttivi, di qui la necessità di una loro gestione integrata. Gli impatti su sicurezza e ambiente derivano dalle regole e soprattutto dai comportamenti delle persone, che hanno un ruolo fondamentale: la cultura della sicurezza e dell’ambiente sono pertanto parenti stretti e trovano nel “fattore umano” la loro pietra angolare. È la cultura che porta le persone a tenere in ordine il luogo di lavoro anche ai fini della minimizzazione di rischi e, contestualmente, a gestire al meglio le risorse energetiche non rinnovabili. È l’escavatorista, per fare un esempio, che adotta ogni accorgimento per impiegare la macchina in sicurezza e, allo stesso tempo, si preoccupa di non inquinare e sprecare carburante.
Qual è, a suo parere, il terreno più fertile per far crescere la cultura della sicurezza e avvicinarci il più possibile all’obiettivo prioritario “zero infortuni”?
Innanzitutto, dobbiamo accantonare fatalismo e slogan. Seguendo la lezione dello Stoicismo, dobbiamo invece concentrarci su quanto possiamo cambiare: non possiamo agire direttamente sulla dinamica di un fenomeno complesso come l’infortunio, bensì sulle sue condizioni al contorno. Cicerone scriveva che l’arciere non si focalizza sul bersaglio, ma su tipologia dell’arco, peso della freccia, direzione del vento, postura… Ovvero sulle condizioni controllabili, che concorrono a cogliere nel segno. Nella sicurezza dobbiamo fare lo stesso: definire gli elementi culturali, tecnici e organizzativi che, se tesi all’eccellenza, determineranno luoghi di lavoro dove infortunarsi sarà sempre più infrequente (ovvero, avremo come conseguenza il tendere a zero infortuni).
Ingegnere, ci svela queste “condizioni”?
La prima è la costruzione, da parte delle leadership, di un ambiente culturale positivo. Ci si lavora con le parole, con gli atteggiamenti e con le (buone) pratiche. Un esempio? Nei cantieri Amplia non solo gli operai, ma anche i visitatori dovranno sempre indossare la divisa completa, integrale; è una questione di cultura, coerenza, rispetto ed equità: chiunque si trovi nell’ecosistema cantiere deve poter contare sui medesimi standard di protezione. Un’altra condizione è l’organizzazione, fatta di procedure e sistemi di gestione. Ma prima ancora c’è la cultura specifica: ovvero deve essere chiaro che la sicurezza non è una prerogativa di una sola funziona aziendale, ma di tutti, nessuno escluso. Non funziona, non è sostenibile il modello basato sui “guardiani della sicurezza”. Invece, funziona benissimo quello della “sicurezza di comunità”.
Aggettivi per definire la materia? Noi suggeriamo: sicurezza diffusa. O pervasiva.
Meglio ancora: naturale e “impastata”, per usare un termine tipico del nostro mondo. La sicurezza, la cura per noi stessi, è e deve essere nella natura delle cose. A farla sono i direttori, i capi cantiere, gli assistenti, ovvero le persone. E per farla bene occorre “impastarla” tra le varie funzioni, ma non solo: deve essere costruito un modello aziendale in cui la sicurezza è riconoscibile come asset prioritario anche nei rapporti con tutti gli interlocutori, dentro e fuori dall’azienda.
Ci fa qualche esempio di quest’ultima condizione?
Il concetto riguarda per esempio gli approvvigionamenti, ovvero i rapporti con i fornitori, ma anche e soprattutto con i subappaltatori, un ambito in cui l’aspetto della sicurezza deve diventare sempre più importante in termini di regole di ingaggio. Dobbiamo intensificare l’inserimento nei contratti di norme molto chiare in tal senso, così come sistemi di bonus malus, con dispositivi di monitoraggio, afferenti alle prestazioni di sicurezza.
Come si “indicano” correttamente gli standard di sicurezza?
Quella dell’indicizzazione, va premesso, è una pratica già piuttosto diffusa nell’industria. In questa fase, tuttavia, ci basiamo per lo più su indici reattivi: quanti infortuni, di quale tipologia, e via dicendo. Dobbiamo ora integrare questo approccio introducendo una serie di indici preventivi: rilevazioni che ci forniscano, anche grazie all’intelligenza artificiale, previsioni, valutazioni di prospettiva e, di conseguenza, suggerimenti mirati su come è meglio procedere. Oltre a conoscere quanti incidenti ci sono stati, ci interessa, per esempio, avere un quadro preciso dei “mancati incidenti”, categoria vicina alla base della piramide di Heinrich, con cui condividiamo il messaggio: se vogliamo ridurre gli infortuni al vertice dobbiamo lavorare in profondità sui mancati infortuni alla base. Il che vuol dire fare prevenzione.
Ci può fornire alcuni spunti di evoluzione partendo dal ruolo della sicurezza in ambito HR?
Si tratta di un’altra grande opportunità di connessione inter-aziendale: fin dagli annunci di lavoro deve risultare piche evidente che per Amplia la sicurezza è un valore assoluto. Fin dai colloqui di lavoro, dobbiamo mettere in chiaro che la sicurezza la costruiscono tutti, perché si tratta di un tema totale e non parziale. Dobbiamo “impastarla” con la progettazione, con i processi di gestione delle macchine, con la
pianificazione dei lavori…
Proseguiamo con la formazione.
Oggi la formazione si fonda su un dettato normativo che offre metodiche e indicazioni generali, ma non va in profondità, penso all’aspetto funzionale. Dobbiamo contestualizzare questo approccio generalista in un’esperienza aziendale che sia costantemente migliorativa, sul punto, e creare quel giusto mix che consenta al personale di passare, naturalmente, dalla teoria alla pratica. Da parte nostra, cureremo sempre di più i follow-up: lavoreremo in aula ma poi ci preoccuperemo di coltivare i concetti e tradurli nella pratica, per far sì che vengano interiorizzati.
Come si fa, nel concreto?
Introducendo sistemi di incentivazione dei comportamenti, da misurare e premiare, o disseminando messaggi che sappiano arrivare non solo alla testa, ma anche alla pancia di chi lavora. Penso a rappresentazioni teatrali sulla sicurezza, interventi di testimonial delle associazioni, scambi di esperienze con altri settori produttivi.
E le regole?
Devono esserci, ma devono essere oggettive, giuste, conosciute e chiare. Nonché ben innestate in quell’habitat culturale e comportamentale che abbiamo descritto. L’esperienza, in fondo, insegna: gli obiettivi, lasciati da parte fatalismo e slogan e aperto il campo alla saggezza, antica e insieme modernissima, possono essere raggiunti.